Il
carciofo alla giudia è un piatto
della cucina ebraico romanesca,
forse il più famoso, già largamente celebrato
e apprezzato nel 1500.
Un po' di storia
Tipico
dell’area mediterranea, il Cynara
Cardunculus, progenitore selvatico del carciofo, si differenziò dal cardo
selvatico nel Pleistocene e fu domesticato in Sicilia 2000 anni fa.
Le civiltà del bacino del Mediterraneo lo
conoscevano: gli Arabi coltivavano al-karshuf
già nel IV sec. a. C; semi e brattee sono stati rinvenuti in una colonia penale romana del
III sec. a.C. in Egitto; i Greci usavano
la parola cynara per indicare le piante spinose. Teofrasto, filosofo e botanico
greco vissuto tra IV e III sec. a.C., descrive le cardui pineae. Marco Terenzio
Varrone parla per la prima volta delle tecniche di coltivazione nel De re
rustica del 37 a.C.; Plinio affronta lo stesso argomento nella Naturalis
Historia del I sec. d.C. Nel secolo successivo il medico greco Galeno la fa
entrare ufficialmente nella medicina e nella farmacopea.
Nel
XIV sec. il carciofo viene importato a Firenze da Filippo Strozzi Nello stesso
periodo si diffonde anche in Inghilterra e poi, gradualmente, verso il nord
Europa grazie alle tecniche di coltivazione e di moltiplicazione vegetativa elaborate nel XVI secolo. Nel XVIII e XIX secolo
conquista gli Stati Uniti e l’America del Sud grazie agli emigranti francesi e
spagnoli.
I
documenti storici smentiscono, si narra però,
che a farlo conoscere in Francia fu Caterina De’ Medici. La sovrana, golosa di
carciofi, forse ne apprezzava anche le proprietà digestive, perchè mangiava
così tanto che “si credeva di vederla scoppiare”, annota un cronista del tempo.
Il carciofo nell'arte
Definito
nel 1500 “principe delle verdure d’inverno”
e “diavoleria mangereccia”, appare
sempre più spesso non solo nei manuali di cucina. Raffaello lo rappresenta
negli affreschi di Villa Farnesina, Francesco del Tadda scolpisce la Fontana
del Carciofo nel Giardino di Boboli, Giuseppe Arcimboldo dipinge Vertumnus.
La scultura Carciofi di Patrick Laroche viene esposta all’EXPO.
Il carciofo nella letteratura
Grazia
Deledda lo descrive ne Il tesoro degli zingari e Pablo Neruda
gli dedica una poesia:
“Il
carciofo dal tenero cuore si vestì
da guerriero, …”
Il carciofo nei documenti
Compare
anche in un documento del 24 aprile 1604,
conservato nell’Archivio di Stato di Roma, una denuncia, perchè il carciofo era
stato causa di una lite. Il denunciato, certo, non era proprio un tranquillo
signore che reagiva solo se ripetutamente pungolato. Fatto sta che Pietro da
Fusaccia, garzone all’Osteria del Moro, denuncia Michelangelo Merisi, sì
proprio Caravaggio, perché” havendoli portato carciofi sì cotti, cioè
quattro nel burro et quattro col’olio…mi ha domandato, quali erano quelli che
erano cotti col burro, et quelli col’olio, e jo li risposto, che li odorasse
che benissimo havrebbe conosciuto…, colui allora è montato in collera et… ha
preso un piatto… e me l’ha tirato… mi
ha colto in questa guancia manca…et ha dato mano alla spada di un suo compagno“
inseguendolo per tutta l’osteria.
Le varietà del carciofo
In
Italia ci sono molte varietà di carciofo; coltivato in pieno campo, è presente sul
mercato da ottobre a maggio.
I precoci sono il Brindisino, il Violetto di
provenza, il Violetto di Sicilia, il Violetto, lo spinoso di Palermo e lo Spinoso Sardo; i tardivi il Bianco di Pertosa , Presidio
Slow Food, il Carciofo di Paestum IGP e il Romanesco del Lazio IGP.
Il Carciofo Romanesco del Lazio IGP, prodotto nel
periodo febbraio-aprile , “ha capolini di grandi dimensioni e di forma sferica,
compatta, con caratteristico foro all’apice, brattee esterne di colore verde
con sfumature violette ad apice arrotondato”.
Il carciofo
fornisce un basso apporto calorico, è ricco di potassio, calcio, fosforo, ferro
e di
fibra alimentare, mentre ha
scarso contenuto in vitamine. Contiene
componenti “non nutrienti” con azioni
protettive per la salute e l’attività antiossidante è elevata anche dopo la
cottura.
La
coltivazione del carciofo nel Lazio sembra risalga agli Etruschi come confermano
le raffigurazioni di foglie di carciofo in alcune tombe della necropoli di
Tarquinia.
La cucina
ebraico romanesca
La
comunità ebraica di Roma è la più antica d’Europa, la sua presenza risale al II
secolo a.C.
Il
12 luglio 1555 Paolo IV, con la bolla Cum nimis absurdum, ordinò l’istituzione
del ghetto, in cui gli ebrei furono
costretti a risiedere.
Nel ghetto, gli ebrei romani vennero a contatto con gli
esuli ebrei spagnoli espulsi da Isabella di Castiglia, quelli siciliani espulsi
dagli Aragonesi, vissuti a contatto con le civiltà islamiche. Da questo
incontro tra il gusto alimentare condizionato dall’ambiente di origine, la cucina ebraica di una comunità di antico stanziamento che non
poteva rimanere insensibile alla cultura romana, nasce la cucina ebraico
romanesca. Una cucina che cercava di
nobilitare gli alimenti a buon mercato reperibili e che doveva rispettare i
ferrei limiti che il governo pontificio
aveva posto anche nella dieta alimentare degli ebrei , oltre all’insieme di
norme, prescrizioni e divieti, la kasherut,
che regola la cucina ebraica. Kasher
significa adatto e indica quei cibi che si possono consumare perché conformi
alle regole. Questo insieme di norme non ha penalizzato la cucina ebraica ricca
di estro e fantasia, ha però guidato alcune scelte. Ad esempio, il divieto di cuocere
carne insieme ai latticini, quindi anche al burro e alla panna ha portato ad
utilizzare l’olio e il grasso di oca o
di gallina per cucinare. Nella cucina
ebraica romana si usa quasi esclusivamente
l’olio di oliva, sia per il condimento che per la cottura. I fritti in olio sono
un vanto di questa cucina e i carciofi alla giudia uno dei piatti più
apprezzati e conosciuti.
Crescenzo Del
Monte,
massimo esponente della poesia giudaico romanesca, con il linguaggio parlato
nel ghetto alla fine dell’ Ottocento, ricorda
il carciofo alla giudia nel
sonetto
‘O
‘nvitato a pranzo
Magna,
magna, Moscè, ‘un fa’ complimenti!
...
...
…Magna
co ‘i mani, stamo fra parenti!…
…Vardeme sta carciofela, chi belli
fogli ‘nnorati assaja.
…Vardeme sta carciofela, chi belli
fogli ‘nnorati assaja.
…ù
La Ricetta dei carciofi alla giudia
Per
i carciofi alla giudia servono i cimaroli romaneschi. Il carciofo fresco
deve avere capolino sodo al tatto, senza macchie e con brattee, “foglie”,
serrate; gambo duro, preferibilmente grande perché segno di vigore della pianta
e quindi di tenerezza, senza parti gialle e con foglie verdi.
Per
la conservazione si può mettere in un vaso con l’acqua, come si fa con i fiori
freschi, oppure in frigorifero.
La “capatura” è fondamentale. Si tolgono le
foglie verdi e dure fino alle prime
foglie giallo-rosate alla base, poi “Pulite i carciofi facendoli ruotare
lentamente con la mano sinistra, mentre sta ferma la mano destra che fa
penetrare la lama di un piccolo coltello ben affilato nella polpa del carciofo.
Così il taglio si effettua a spirale e di foglia in foglia viene ad essere
eliminata la parte dura e conservata la parte tenera.
Metteteli per qualche
minuto a bagno in acqua acidulata con
parecchio limone. Scolateli, asciugateli e batteteli uno contro l’altro per
allargare le foglie.”*, spiega G. Ascoli
Vitali-Norsa. Si immergono in abbondante
olio di oliva ben caldo, quando saranno quasi cotti, si tolgono, si allargano
le foglie con l’aiuto di una forchetta fino ad aprirle completamente e si
rimettono nell’olio bollente. Quando son ben dorati si estraggono infilzandoli
con una forchetta, si spruzzano con acqua o vino bianco gelato e si cuociono
per un minuto ancora. Sono pronti, dorati e croccanti, da servire caldi.
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